In un’epoca storica caratterizzata dalla crescente attenzione al benessere psico-
fisico dell’individuo, l’aumento significativo in età evolutiva di problematiche alimentari, soprattutto di obesità, ha portato tanto gli specialisti quanto l’opinione pubblica ad interrogarsi su quali possano essere cause, fattori di rischio e strategie di prevenzione e intervento efficaci.
Nella pratica clinica quotidiana pediatri, ma anche psicologi ed educatori si confrontano sempre più spesso con casi di bambini fisicamente al limite della criticità, in cui fattori organici e psicologici si intrecciano in maniera complessa a determinare quadri
non sempre facili da affrontare. Provare ad adottare uno sguardo aperto e multisfaccettato può aiutare questi bambini a recuperare un equilibrio più funzionale alla crescita nel rapporto con il cibo e l’alimentazione.
Diversi sono gli studi, italiani e internazionali, che hanno messo in luce una tendenza
piuttosto allarmante nella popolazione infantile degli ultimi anni: i disturbi alimentari
come Bulimia Nervosa e Anoressia Nervosa vengono diagnosticati in età sempre più
precoce (anche 8 o 9 anni).
Poi ci sono i bambini che presentano stati di importante obesità, talvolta fin dai primi anni
di vita, che vivono molto precocemente esistenze costellate da impedimenti fisici e
difficoltà.
Esiste, inoltre, tutta una popolazione di bambini ufficialmente al di sotto della soglia di
significatività clinica, che comunque vivono una condizione di disagio significativo con il
loro corpo e nelle relazioni che instaurano attraverso la mediazione di questo.
Non dimentichiamo che il corpo è per il bambino lo strumento per eccellenza, di
esplorazione, conoscenza del mondo, apprendimento e relazione e se è “appesantito”, maneggiato con fatica e scarsa consapevolezza può generare immaturità,
insicurezza e sfiducia Il tema “cibo” negli studi professionali pediatrici e psicologici è sempre piuttosto caldo: genitori completamente impermeabili a situazioni vistosamente critiche, ad esempio di grande sovrappeso, si alternano a genitori molto focalizzati sull’alimentazione dei figli, quasi ipervigili sullo stato di nutrizione e sulle dinamiche relazionali che si instaurano al momento dei pasti, veri e propri “bracci di
ferro della cura” che passa attraverso nutrimento.
La significatività del tema sembra riguardare in maniera abbastanza trasversale i bambini e le loro famiglie, dallo svezzamento all’autogestione tipica dell’adolescenza, seppur con le dovute specificità legate alla fase evolutiva.
Al di là delle opportune valutazioni mediche che si possono fare, che vanno sempre tenute in debita considerazione,
Può essere utile apportare alcune riflessioni di natura psicologica, data anche l’origine multifattoriale del fenomeno.
E’ noto da sempre come il cibo sia nutrizione del corpo quanto delle relazioni; il pasto è un momento privilegiato in cui si costruisce la capacità relazionale emergente del bambino, è uno spazio in cui si crea gradualmente tra madre e piccolo un ritmo condiviso, quello che Stern chiama “ritmo di danza” in cui i due partner imparano ad adattarsi reciprocamente; fondamentale è la capacità dell’adulto di rispondere efficacemente ai segnali del bambino stesso (Stern D. 1998 Le interazioni madre- bambino nello sviluppo e nella clinica. R. Cortina Ed., Milano), discriminando con attenzione i bisogni espressi dal piccolo. Neogenitori disorientati e preoccupati possono rischiare talvolta di rispondere a qualsiasi pianto del figlio con il cibo, generando confusione nel bambino stesso.
Per prima cosa, quando abbiamo davanti un bambino con problemi di tipo alimentare ci dobbiamo chiedere: che stile alimentare c’è in questa famiglia? Oltre al peso che le
abitudini alimentari quotidiane hanno sull’individuo, bisogna domandarsi in quella precisa famiglia con quella specifica storia di quale messaggio di relazione è portatore il cibo? Condivisione? Cura o ipercura? Controllo? Compensazione di vuoti, carenze affettive e/o communicative?
Il messaggio veicolato dal cibo, dalle abitudini e rituali che gli girano intorno in ciascuna famiglia, viene interiorizzato da ciascun membro a un livello talmente profondo da diventare la “mappa” di funzionamento del singolo rispetto all’alimentazione.
E poi c’è la seconda importante considerazione da fare: che ruolo ha il cibo all’interno di una specifica relazione diadica o triadica, ad esempio quella madre/bambino o padre/madre/bambino.
Proprio all’interno di dinamiche relazionali che si sviluppano tra individui legati da una relazione di cura trovano espressione, talvolta disfunzionale, bisogni inespressi, difficoltà di comprensione e decodifica dell’altro, condizioni che ostacolano fortemente l’instaurarsi di un rapporto sano con il cibo e con l’altro. Nella pratica clinica è talvolta possibile
rilevare indicatori di rischio già in fasi piuttosto precoci dello sviluppo: ad esempio comportamenti o abitudini alimentari “particolari”, forte selettività, rifiuto ostinato del cibo,
Dinamiche relazionali ad esempio di conflitto, apprensione e controllo ai pasti del bambino.
L’individuazione precoce e il trattamento psicologico dei primi momenti di “impasse alimentare” può essere estremamente utile al fine di evitare il peggioramento e la cronicizzazione di situazioni agli esordi, con un potente effetto di prevenzione.
Soprattutto in questi casi per i genitori può essere estremente utile fare delle riflessioni con lo psicologo sulle dinamiche connesse al cibo: ad esempio, quando e come viene dato il cibo al bambino? quando e perchè viene chiesto da quest’ultimo? Soprattutto nei bambini molto piccoli, il bambino può sperimentare da solo e liberamente il cibo soddisfacendo il bisogno di autonomia? In che modo in famiglia si svolge il pasto (si mangia insieme a tavola? Si
mangia davanti all’ipad?
La richiesta incalzante di cibo da parte di un bambino piccolo, inoltre, può arrivare come tentativo di riempire fisicamente uno “spazio interno” ancora un pò consuso. Proprio in una fase in cui nel bambino ancora la capacità di autoregolazione psico-fisica è immatura, dietro un apparente senso di fame si può nascondere quello che comunemente viene definito “vuoto”, insofferenza o “noia”, traducibile più correttamente
in una difficoltà a strutturare autonomamente il tempo, lo spazio e il gioco e a leggere I propri biosgni ed emozioni. L’apposizione dell’etichetta “fame” anche da parte degli adulti
rischia di rinforzare la pericolosa tendenza a leggere in maniera univoca sensazioni ed emozioni diverse (tristezza, insofferenza, noia, gioia, rabbia, ecc...), che invece andrebbero riconosciute e differenziate nella mente del bambino perchè ad ogni emozione o stato c’è una risposta più funzionale che non richiede necessariamente la compensazione con il cibo. Queste condotte possono perpetrarsi nel tempo fino a creare adulti con “fame nervosa”
o meglio con condotte alimentari disfunziali a base emotiva.
Dott.ssa Daniela Palumbo
Psicologa e Psicoterapeuta familiare esperta in età evolutiva
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